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Giuseppe Vannini [11/09/2025]
Avevo circa 35 anni. Troppi per trovare una giustificazione nonostante ONU, Nato, Europa e il mondo intero disperdessero nel vento a 360 gradi anatemi e parole.
Di allora ricordo un mantra ripetuto fino all’ossessione: “Tito li teneva uniti, adesso che non c’è più bisogna stare alla larga da quegli zingari e lasciare che se la sbrighino da soli, i Balcani sono una polveriera”.
Fino ad allora la Jugoslavia andava bene a tutti: località sobrie e un po’ tristi ma mare da favola e un piatto di gamberi alla griglia per quattromila lire. Sette anni prima avevano ospitato le Olimpiadi invernali, considerate anche oggi le migliori di sempre.
Qualche anno fa ho accompagnato alcuni amici in barca a vela dal nord attraverso tutto l’Adriatico, destinazione Sicilia. Una notte volevano riposare tutti e mi hanno relegato al timone. “Non ti preoccupare: le luci che vedi a sinistra sono le isole dalmate, quelle a destra sono le Marche. Tu mantieniti rigorosamente nel mezzo, schivando le boe dei pescatori e vai tranquillo.”
Già. I Balcani sono una polveriera ma le bombe non cadevano troppo lontano da noi, non abbastanza lontano da ignorare quello che succedeva laggiù. Ho cercato in rete negli archivi RAI qualche TG dell’epoca per capire se ero io il menefreghista disattento. Falcone, Borsellino, Tangentopoli, Maradona… avevamo rogne grosse, assai più importanti. Capisco. Forse per questo le notizie passavano solo di tanto in tanto frammentate, quasi mai annunciate in apertura di sommario. O forse, cinicamente, perché nei Balcani non ci sono risorse importanti da accaparrare e, caduto il muro di Berlino, il cuscinetto del “comunismo buono” non era più strategico alla sopravvivenza del capitalismo occidentale.
Sui libri di storia un breve paragrafo raccontava che a Sarajevo nel 1914 un anarchico aveva ucciso l’Arciduca d’Austria, dando il via alla Prima Guerra Mondiale. Lo studiavi a marzo inoltrato e bisognava passare subito oltre perché rimanevano solo due mesi di scuola per tutte le guerre del 900 e arrivare fino alla prosopopea dei giorni nostri. Quindi non c’era tempo di porsi troppi perché.
Forse è proprio per il fatto che non abbiamo mai tempo per porci troppi domande che certe situazioni si ripetono miseramente uguali, anno dopo anno, da secoli.
Paradossalmente, per capire ho avuto bisogno di un fumetto. Anzi di due.
Quando ho letto Sarajevo Tango, al di là della consueta sceneggiatura cruda e drammatica di Hermann e dei sui spettacolari disegni ad acquerello, mi aveva colpito, anzi irritato, il modo grottesco con cui rappresentava le istituzioni internazionali: Puffi e palloni gonfiati, personaggi che si affacciano dai buchi di un enorme formaggio. Ma come? L’ONU difende i diritti dell’umanità intera e la Nato protegge direttamente noi, non capivo bene perché stereotiparli in quel modo.
Poi ho letto Fax da Sarajevo su un volume allegato al Corriere della Sera perché inizialmente l’avevo snobbato non essendo mai stato un patito del tratto spigoloso e graffiante di Joe Kubert, fin dai tempi in cui ero appassionato di Tarzan. A lui preferivo l’anatomico Hogarth e il metodico Manning.
Fax da Sarajevo l’ho letto due volte e poi l’ho riletto una terza, poco prima di partire per quella città strana, unica al mondo.
La sceneggiatura è perfetta, moltissime tavole sono assemblate magistralmente, la storia è toccante. L’avventura di Ervin Rustemagic e del suo calvario di speranza per portare la famiglia fuori dalla Bosnia è nota a tutti coloro che seguono con attenzione il mondo dei comics. Senza saperlo, ho sicuramente incrociato Ervin in una qualche Lucca del secolo scorso e mi sarebbe piaciuto andarlo a trovare a casa sua ma mentre googlavo il suo indirizzo, ho appreso della sua morte. Non mi ha comunque impedito di fare una lunga passeggiata fino all’Holiday Inn, luogo simbolo dell’assedio, lungo un imponente ed elegante viale costellato da moschee, sinagoghe e chiese cattoliche, ancora segnato da schegge di mortaio e fori di pallottole.
Sarajevo è adagiata sul fondo di un catino di deliziose colline verdeggianti. Difficile immaginarle piene di cannoni e mortai puntati sul centro della città. Sull’ardita pista da bob la Germania Est aveva dominato quasi tutte le gare olimpiche. Poi la Repubblica Democratica Tedesca si era dissolta come nebbia al sole tra le macerie del muro e nel volgere di pochi anni le curve paraboliche della pista si erano trasformate in una lunga trincea dai contorni spettrali.
Impossibile non pensare a dove eravamo noi durante quegli interminabili 1425 giorni di assedio, forse concentrati a goderci le ultime copertine di Galep o a leggere le storie fantastiche di Zona X. I più bravi forse si sentivano in pace con il mondo plaudendo agli albetti underground di Maus allegati a Linus.
Di là , oltre il mare mucillaginoso, popoli che da secoli rivendicano la loro indipendenza vedevano nei genocidi di massa l’unica soluzione possibile ai problemi di coesistenza.
Bombardare la Biblioteca Nazionale per azzerare i legami culturali con la storia, come nell’antichità, come nel medioevo, come in Fahrenheit 451, come nella mente dello psichiatra Fredric Wertham, era un atto necessario.
Gli esseri umani sono un indiscusso patrimonio dell’umanità ma un gradino più sotto lo sono anche i milioni di libri che la stessa umanità ha stampato nel corso dei secoli.
Quello di Sarajevo è considerato l’ultimo grande assedio della storia portato con logiche medievali. In futuro, sarà più difficile trovare ancora delle gigantesche biblioteche da distruggere in quanto disperse nel cloud, negli hard disc di tutti noi o nel sottosuolo delle Svalbard.
(Agosto 2025)